Antonio CARBE'
Chiara GATTI
Dino VILLANI
Enzo DE MARTINO
Franco BINELLO
Franco FOSSA
Franco LOI
Gabriella NIERO
Gianni DAZZIO
Gianni PRE
Giorgio PILLA
Giorgio SEVESO
Gioxe DE MICHELI
Giulio GASPAROTTI
Giuseppe POSSA
Giuseppe PROSIO
Liana BORTOLON
Mafalda CORTINA
Maria Clara BOSELLO
Mario BORGESE
Mario DE MICHELI
Natale ZACCURI
Orfango CAMPIGLI
Paolo RIZZI
Pier Luigi VERRUA
Roberta AVALONE
Roberto MAIOGLIO
Tiziana CANITERO
Vera MENEGUZZO
Veronica MOLINARI
Maria Clara BOSELLO
Pietà07-2020
È nella lucida trasparenza del vespro che Giovanni Bellini, nella Pietà di Brera (tempera su tavola, 1465-1470), immerge l’abbraccio nitidissimo di Maria al Figlio esanime, illuminato, scultoreo e inciso dal dolore. Lo stesso dolore, per quanto diverso, ha patito anche Maria, i cui occhi gonfi di pianto cercano da vicino un contatto con quelli ormai chiusi di Cristo. La mano rosea di lei cerca di fare lo stesso, brandendo l’altra livida e piagata, rialzandola, quasi a volerla rianimare. La bocca di madre socchiusa, come la Sua, sembra sussurrare, quasi a volergli “soffiare un respiro si vita” (Caterina Di Fidio).
E nelle sue Pietà Carola Mazot rende fluida e liquida quella luce, forti e profondi quei tratti quasi volesse impastare, rendere palpabile e sensibile il legame tra la Madre e il Figlio. Pietà velata, del 2001, mostra già tutta la potenza inafferrabile dell’immagine belliniana che viene però avvicinata con cautela, velata, appunto, da rapide pennellate trasparenti.
Le altre Pietà prendono il nome dal colore del manto di Maria, ad indicarci che è Lei il vero fulcro dell’istante rappresentato: Pietà rossa è, in verità, la primissima redazione di questa serie, dove nel contrasto rosso-verde, che sbilancia volutamente la composizione cromatica verso la Madonna, riecheggia una certa eredità veneta, propria della famiglia di Carola. Il rosa della preparazione della tela si fonde col rosa del torso di Cristo reso livido e freddo da tocchi di bianco e grigio. I segni neri, crudi, marcati del volto, del collo, del braccio hanno una forza espressionistica tale da far emergere e sprofondare le forme, non solo sulla tela ma anche nella memoria dell’osservatore. Uno in particolare colpisce: quello che scorre sulla mano di Cristo, trapassando, sovrapponendosi a quella di Maria, portando la nostra attenzione su quel tocco.
Pietà Gialla, oggi a San Luca, e Pietà Bruna sono in qualche modo “parenti”, non solo per sostanziale contemporaneità (entrambe del gennaio 2002) ma anche per un certo ammorbidirsi del colore e del modellato.
Carola qui sottolinea gli occhi, traccia le bocche sulla stessa linea; nella Gialla marca il naso di Gesù ma sfuma il contorno dei due volti, che si fondono; nella Bruna inverte le due cose e crea una tridimensionalità a tratti rassicurante, naturale, tanto che il brano delle mani torna ad avere una sua presenza, benché lievemente tracciata.
Nella Gialla, forse la più audace, il gesto pittorico trascorre rapido, scuro e sicuro, dinamico sulla diagonale, accarezzando l’immagine; uniche a non seguire quel movimento sono le spine, aguzze che trafiggono il capo di Cristo e pungono l’occhio dell’osservatore. La mano di Maria quasi si fa trasparente a lasciare più spazio ai volti o a significare il gesto, potente ma in fondo così delicato, da madre. Il tutto è immerso in una luce calda, gialla che impasta, che inonda, che coinvolge e si irradia dai due volti alla tela, dalla tela alla cornice e dalla cornice a chi oggi guarda, a chi oggi sente la Pietà Gialla.
L’ultima, in ordine cronologico, è Pietà Nera dove, in un certo senso, si torna alla nettezza delle prime: gli elementi ci sono tutti, è essenziale e completa, si potrebbe dire; ma con una nuova, conquistata consapevolezza dello sguardo di Maria in cui si intensifica il dolore e, al contempo, la sua consistenza - Stabat Mater – quasi il segno di una coscienza vagliata, conosciuta.
I grandi artisti solo soliti tornare spesso a uno stesso tema - si pensi, non a caso, alle diverse Pietà di Michelangelo ad esempio -, una sorta di positiva ossessione per una data immagine, al fine di riguardarla, di contemplarla con occhi nuovi, di farla vibrare di vita trascorsa e diversa. Succede a volte anche a noi quando guardiamo dopo qualche tempo un’opera d’arte già conosciuta: ci appare nuova, portatrice di verità prima taciute. È questo che succede quando immagini, opere, testi parlano nel profondo, sono il riflesso di qualcosa che urge dentro, sono un porto a cui si ha bisogno di tornare, un pungolo che non lascia tranquilli.
Carola dice: “…Chissà se per tutti il massimo della bellezza è l’incontro con un mistero.” Un Mistero che nelle Pietà, sensibilmente, si percepisce palpitante.
Il mistero della realtà
06-2020
“C’è un mistero, qualcosa di indefinito che arriva dipingendo. Da dove viene non so.”
Carola Mazot coglie così l’essenza della sua esperienza: un incontro misterioso, un “indefinito” che proviene da chissà dove e che decide di fissarsi sulla tela per mano dell’artista.
E come ogni mistero non ha la pretesa di esaurirsi lì, come ogni incontro ha la necessità di approfondirsi nelle pieghe del tempo.
“… e i miei quadri si finiscono quando vogliono. Certi, molto raramente, in pochi giorni altri in mesi. Alcuni in anni per cui ne ho sempre molti in lavorazione.” Non è solo per raffinare la tecnica ma per entrare sempre più nel cuore dell’immagine: come spiegare altrimenti il ripresentarsi così frequente di certi volti, il ritornare coscientemente su tratti che parrebbero già percorsi ma che, invece, sono sempre una nuova occasione di conoscenza?
Mario de Micheli scrive: “Carola sa benissimo che, quando si è davanti alla tela, si è senza difese, esposti al mistero di quanto potrà accadere”. Ecco, è un accadere sempre fresco che si palesa sotto gli occhi di chi guarda; quasi si avesse l’impressione di veder comparire quei tratti incisivi e evocativi nello stesso momento in cui si osserva l’opera.
Questa freschezza, questa ricerca, questa indagine curiosa è ciò che si riscontra quando si scorrono tutte assieme le opere del primo periodo della pittura di Carola, quello che va dal 1966 al 1975: sono gli anni fertili della Accademia di Brera, della frequentazione di “Jamaica”, delle amicizie con i grandi maestri delle nuove avanguardie del secondo dopoguerra. Una vitalità culturale che scuote l’Italia facendo esplorare territori nuovi e che riempie di spavalderia chi cerca nuove forme d’espressione. Ma di Carola, acutamente, Franco Loi scrive “la sua originalità e la sua autonomia da ogni ‘convinzione moderna e culturalistica’ trovano il naturale supporto nella fiducia e nel rapporto poetico e diretto che l’artista ha con la realtà”.
La realtà, dunque, si fa spazio sulle tele di Carola Mazot attraverso qualche studio di nudo, morbido, tanto naturale quanto classicheggiante (in pose che ricordano il famoso Ermafordito del Louvre); qualche studio del volo degli uccelli, dalle geometrie aeree, leggere, nette (a dimostrare che l’osservazione è il primo passo di chi è in rapporto con il reale); ma soprattutto volti, teste, coppie, ragazzi, ragazze, uomini, donne; raramente compare qualche oggetto come una lettera, un violino, un fiore o un gesto - Il carpentiere (626) - o uno stato d’essere - Maternità (621).
Seguendo i maestri in Accademia (Giacomo Manzù, Marino Marini…) si può intuire che per Carola la realtà più interessante, più misteriosa, più intrigante, più imperscrutabile rimane l’essere umano, il suo volto, qui quasi sempre preso di tre quarti, con una posa che esclude parte del viso e che cela quindi un che di inafferrabile. Nasi diritti, zigomi marcati, bocche sottili, occhi socchiusi, tratti essenziali che costruiscono il disegno, che consegnano espressività, che assommano la personalità tutta, che alludono all’interiorità silenziosa e potentissima. Nelle numerose tele di Coppia (219) il dialogo muto tra uomo e donna rimane intriso di bramosia maschile e impassibilità femminile; in Attrazione (302) si percepisce la distanza di una improvvisa e nuova tridimensionalità dei corpi. Una distanza di intenti, acuita dalla divergenza degli sguardi, quello di lui su di lei e quello di lei lontano, altrove.
Sono guance che si sfiorano, labbra che indugiano in un ignoto, sospeso momento di attesa: il mistero tra due misteri. “Questo è il paradosso dell'amore fra l'uomo e la donna: due infiniti si incontrano con due limiti; due bisogni infiniti di essere amati si incontrano con due fragili e limitate capacità di amare.” (R. M. Rilke) L’essenzialità con cui Carola delinea e separa i suoi Volti da qualsivoglia contesto, quasi a spogliarli di spazio e tempo, li rende universali. Lo studio di composizione e di tridimensionalità in alcuni Volti (249, 251) e Teste (287) - che ricorda certi brani di Masaccio, suo grande amore assieme a Piero della Francesca e Giovanni Pisano - e il bellissimo concentrarsi sugli sguardi rivelano una profondità di lettura dell’animo umano che rende affascinante il viaggio che, in questo primo periodo, sta soltanto cominciando.
Se, come riporta Giorgio Seveso, Costantin Brancusi diceva che “la semplicità in arte è […] la sostanza di una complessità risolta”, nei volti di Carola Mazot si potrebbe dire che “è la sostanza di una complessità irrisolta”.
E non è un caso se, in mezzo a tante tele future di Calciatori, Ritratti e Giardini, ogni tanto spunteranno le sue Pietà, in cui, di nuovo, saranno due volti a cercarsi e a cercare la tela di Carola Mazot.
Pietà Gialla di San Luca
02-2020
È nella lucida trasparenza del vespro che Giovanni Bellini, nella Pietà di Brera (tempera su tavola, 1465-70), immerge l’abbraccio nitidissimo di Maria al Figlio esanime, illuminato, scultoreo e inciso dal dolore. Lo stesso dolore, per quanto diverso, ha patito anche Maria, i cui occhi gonfi di pianto cercano da vicino un contatto con quelli ormai chiusi di Cristo. La mano rosea di lei cerca di fare lo stesso, brandendo l’altra livida e piagata, alzandola, quasi a volerla rianimare. La bocca di madre socchiusa, come la Sua, sembra sussurrare, quasi a volergli soffiare un respiro si vita.
E Carola Mazot, nella sua Pietà Gialla di San Luca (olio su tela, 2002) rende fluida e liquida quella luce quasi volesse impastare, rendere palpabile e sensibile quel legame. Insiste sugli occhi, traccia le bocche sulla stessa linea, marca il naso di Gesù ma sfuma il contorno dei due volti, che si fondono. Il gesto pittorico trascorre rapido, scuro, sulla diagonale quasi accarezzando l’immagine; uniche a non seguire quel movimento sono le spine, aguzze che pungono il capo di Cristo e l’occhio dell’osservatore. La mano di Maria quasi si fa trasparente (più marcata invece nelle altre Pietà) forse a lasciare più spazio ai volti o forse a significare il gesto, potente ma in fondo così delicato, della madre. È una luce calda, gialla che impasta, che inonda, che coinvolge e si irradia dai due volti alla tela, dalla tela alla cornice e dalla cornice a chi oggi guarda, a chi oggi sente la Pietà Gialla.
Carola Mazot dice: “C’è un mistero, qualcosa di indefinito che arriva dipingendo. Da dove viene non so.”
Un mistero che nella Pietà Gialla, sensibilmente, si percepisce.